L’indicibile

di Salvatore Pappalardo

Io sono l’indicibile, io semplicemente mi mostro (Max Stirner, Scritti Minori, p.156)

Il grido emerge dal profondo della corporeità come deflagrazione psico-somatica di un Io angosciato, inaccessibile a se stesso.  Amorfo e disomogeneo, esplode dai meandri magmatici dell’inconscio dove neurotiche antinomie stridono sui cardini impossibili della coscienza -inafferrabili, al di là del dicibile.

Il grido inarticolato accompagna spesso la figura del folle, archetipico simbolo condannato all’indicibile. Espressione angosciata di un io frustrato, celebra la prepotente vittoria del Koerper incontrollabile e incontrastato, avviluppato nelle sue stesse pulsioni, profonde e inspiegabili. Travolto dal tempestoso turbinio emotivo, nell’impossibile espressione del caotico stato interiore,  il folle è interdetto dalla forza ordinatrice della parola  e costretto ad abdicare alla comprensione e alla coscienza di sé (Alessandrini, 2002).

Il grido dunque è primigenia espressione di un’intenzionalità comunicativa protesa verso l’altro, che cerca, nell’esteriorizzazione, di afferrare e imbrigliare attraverso la dicitura l’indefinito e portarlo così alla luce. Tradurlo alla coscienza, portarlo nello spazio dischiuso dall’atto poiètico dove l’arbitrio corregge sé stesso nell’infinito riflettersi negli altri (cfr. ad esempio Cicerone, 2014).

«Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. […] Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione» (Pirandello, 1994: libro II, XI, p. 53)

La ragione allora non sembra essere che un semplice espediente, uno strumento funzionale per costruire forme intelligibili che aiutino a razionalizzare il proprio inconscio ed esorcizzarlo.    

Etimologicamente il costruire condivide il medesimo suffisso –struire, dal latino strùere, della parola  istruire.  Nella lingua latina ‘strùere’ indica il processo del comporre, del creare, è l’azione che imprime alla materia amorfa una forma sulle impalcature logiche di un telos artificiale, perpendicolare alla spontaneità sive natura . Si ravvisa qua la distinzione aristotelica tra physys e  téchne; spontanea e naturale una, artificiale, antropologica, l’altra(Aristotele, FISICA II, 192 b 8-33).

Possiamo attribuire la stessa funzione strumentale anche al linguaggio, o meglio, al dire? In fondo, anch’esso è un processo che plasma, traccia confini, forme e quindi contenuti. Come la ragione, anch’esso persegue l’impulso (o forse il desiderio, l’esigenza) di  controllare  una realtà altrimenti insopportabilmente caotica.

Per l’uomo occidentale esiste un comune denominatore al linguaggio, alla ragione e alla tecnica: il concetto di  logos. Identificato fin da Eraclito con il fuoco, il logos ha saldato nel nostro linguaggio comune il nesso metaforico tra conoscere e vedere, tra luce e ragione, tra norma e verità: ‘voglio vederci chiaro’, ‘ho la mente ottenebrata’, ‘facciamo luce sul problema’ ecc.    

Il logos consente all’essere umano di individuare un  ordine  e di contrapporlo all’indeterminato, all’intollerabile indicibile. Grazie al logos l’uomo può instaurare il proprio dominio – politico e semantico, poiché acquisisce la facoltà del discernimento, cioè la capacità di separare il giusto dallo sbagliato,il vero dal falso, il lecito dal non lecito.

La nascita dell’Hôpital Général di Parigi, descritta da Foucault in Storia della follia, ci aiuta a comprendere meglio il significato di questo aspetto. All’alba dell’epoca dei lumi, nel 1656, l‘ordine monarchico e borghese sviluppa una nuova organizzazione del potere, instaurando la pratica dell’internamento. Nasce l’Hôpital général, il primo istituto di degenza, la cui funzione non è (solo) di tipo medico bensì giuridico,  poiché rappresenta un’entità amministrativa il cui compito è di decidere, giudicare ed eseguire.

 L’Hôpital infatti «ha uno statuto etico. I suoi direttori […] hanno ogni potere di autorità, di direzione, di amministrazione, di polizia, di giurisdizione, di correzione e di punizione; e per far fronte a questo compito si mettono a loro disposizione pali e berline, prigioni e segrete» (Foucault, 1976: p.45).

Con l’avvento dell’epoca moderna la salute – fisica e morale, da cui dipende la produttività del lavoratore – diventa una questione sociale e in certi casi penalmente perseguibile. Folli, mendicanti, poveri, gli individui posti al margine della società perdono lo status privilegiato di “ultimi” attribuitogli nel Medioevo cristiano e diventano criminali, deviati,  nemici dell’ordine pubblico.
La follia è ora il negativo della ragione, antitesi assoluta del pensiero e della morale, quindi negazione stessa delle regole che guidano la società (Chalambalakis, 2008).

Per comprendere meglio quest’idea è utile introdurre la figura opposta, per contrasto, a quella del folle: il sano.  Il sano è il depositario di una norma-lità interiorizzata, acquisita attraverso l’addestramento finalizzato all’integrazione nella dimensione linguistica dell’uomo politico, dove è fondamentale (e fondante) la comunicazione.     

Il sano è normale in questo senso; possiede le  referenze linguistiche  richieste per interagire correttamente con l’altro, interiorizzando i processi costituitivi della razionalità esso diventa quella ragione, quel linguaggio, grazie al quale si comprende.

Il linguaggio quindi «esprime insieme dominio e potere, cioè sovranità. Il linguaggio manifesta la totalità come spirito del popolo, come koinonia politikè» (Ruggiu, 2012: p.20).    Al lato opposto abbiamo il folle, il  non conforme , biologica confutazione dell’animale politico. 

Potremmo porre la questione anche in questi termini: la comunità (linguistica) da un lato, il singolo, il folle, dall’altro. Su questo versante al folle si affianca un’altra figura:  l’anarca, il waldganger, colui che prende la via dell’esilio. Rifiutando i canoni e le leggi della comunità l’anarca corteggia la follia rifugiandosi nella radura della propria interiorità – come il folle egli è un  barbaro  incapace di adottare la lingua e i comportamenti del normo-dotato (cfr. ad esempio Crisso/Odoteo, 2002).
Anch’esso, parafrasando Max Stirner, è indicibile .   

«L’anarca ha bandito la società da sé stesso. È e rimane padrone di sé in ogni circostanza. È un mercenario, al limite, e non una recluta […]» (Jünger, 2001: 249). Aristotele ha scritto che colui che non è in grado di vivere nella comunità, o non ne senta il bisogno, non può fare parte dello stato e andrebbe considerato al pari di una bestia o di un dio. La figura del folle sfida però l’intuizione aristotelica; la razionalità, il logos, non sono qualità intrinseche dell’essere umano.

Al contrario, sono  competenze esterne, trasmesse in seno ad un contesto sociale, istituzionalizzato, per mezzo di un istruzione che addestra correttamente il cittadino alle regole della comunità – pena la sua criminalizzazione.

Capacità che possono essere acquisite con successo in alcuni casi e in altri no, l’educazione del perfetto cittadino può infatti fallire per infiniti motivi. In tal caso sarà necessario che lo Stato corra ai ripari, magari autorizzando un TSO, e se qualcuno finirà ammazzato in questura si potrà sempre insinuare che, in fondo, un po’ se l’è andata a cercare – non poteva starsene tranquill@ come tutti gli altri?    

Viene allora da chiedersi se esiste davvero una distinzione tra ‘sani’ e ‘pazzi’ e se i primi non siano semplicemente più bravi a dissimulare una parvenza di normalità. In fondo, nec aliud omnino est vita humana, quam stultitiae lusus quidam,  la vita umana nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della pazzia (Elogio della follia, XXVII, p.40).  

In questo gioco di contrasti tra follia e ragione appare evidente che. per l’uomo, la dimensione del logos, della norma-lità, non è l’unica ammissibile. Forse è la più sopportabile, comoda, ma non per questo la più autentica, né tanto meno la più interessante.  

dedicato alla memoria di Franco Mastrogiovanni

Bibliografia

Alessandrini M., Immagini della follia. La follia nell’arte figurativa, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., Roma, 2002 Aristotele, Fisica Libro II, Rusconi, Milano, 1995
Chalambalakis A., Archeologia di un\’esclusione – Storia della follia e limiti del sapere psicologico in Michel Foucault, pubblicato in Ctonia -3, Agosto 2008
Cicerone P. M., Narrazione e psicoanalisi, Mente e Cervello, n.115, luglio 2014
Crisso/Odoteo, Barbari – L\’insorgenza disordinata, edizioni NN, settembre 2002
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Edizioni LibroLibero,Milano, 2013 Milano
Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli B.U.R.,1976
Jünger E., Eumeswil, ed. Guanda, 2001 
Pirandello L., Uno, nessuno e centomila, Einaudi, Torino, 1994
Ruggiu L., Spirito, linguaggio, potere. Hegel e la costruzione della politica, in “Leussein“, 2-3 2012, pp. 19-38.
Stirner M., Scritti minori e risposte ai critici de l’unico, Sociale editrice, Milano, 1923

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